San Benedetto dedica ben sette capitoli consecutivi, che vanno dal trentacinquesimo al quarantunesimo, alla trattazione dell’alimentazione dei suoi monaci. Il costume dietetico dei monaci (numero, qualità e quantità e orario dei pasti per giorno) è chiaramente indicato nella sua Regola, perché in essa l’alimentazione sobria e regolare fu considerata la struttura più valida per esercitare la mortificazione fisica e spirituale, in quanto evocava e realizzava già sulla terra, in quantum fieri potest, la Gerusalemme celeste nella quale non ci sarebbe stato bisogno di nutrirsi.

Inoltre, su un piano strettamente ideologico e pragmatico, la scelta dell’uomo di Chiesa e in particolare del monaco significava già di per sé il rifiuto del mondo e dei suoi piaceri, sicché i modelli alimentari vennero plasmati sulla rinuncia totale alle logiche del potere, sull’archetipo della povertà e frugalità contadina dell’Alto Medioevo. Sul piano della mensa questa lezione di volontaria rinuncia si tradusse quindi nel rifiuto della carne e delle spezie e dei conviti costituiti da molteplici portate, usuali nei ceti signorili; si attuò invece nella scelta della parca temperanza contadina, basata essenzialmente sui prodotti vegetali.

La presunta continua condizione di fame e la scarsità della carne nel vitto dei rustici (che nei primi secoli del medioevo furono più un’ossessione che una realtà) vennero sublimate nell’adozione quasi totalizzante del consumo dei legumi e nelle pratiche ascetiche di astinenza e di digiuno, sebbene tale digiuno, eccetto quello quaresimale molto più stretto benché non totale, consistesse in realtà in un unico pasto giornaliero, anche se ritardato all’ora nona o a quella del vespro per accentuare la mortificazione.